Oltre la tavola pitagorica

Posted on 4 giugno 2010

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[Continuazione dei post dedicati a L’educazione tra rivoluzione ed evoluzione]

Il mio interessamento per la didattica della matematica (unico ambito disciplinare di cui non mi sia ancora occupata a scuola) nasce da un problema che molti genitori incontrano nell’aiutare i propri figli a fare i compiti: l’apprendimento delle tabelline.

Alla ricerca di una metodologia che mi aiutasse a rendere più “dolce” uno dei compiti meno amati dai più piccoli, mi sono imbattuta in primo luogo nel metodo proposto da Camillo Bortolato [pdf] che – a differenza di altre sue proposte didattiche di cui parlerò in un altro momento – non ho trovato particolarmente “risolutiva” del problema.

Indubbiamente interessanti le osservazioni sull’uso dei colori, sull’attivazione emotiva e – più ancora – sulla memoria visiva e sulla ricerca di simmetrie ma, comunque, l’agevolazione che se ne ricava è relativa.

La scoperta della tabellina cinese (vista per la prima volta nel sito di Gianfranco Bo) è invece stata realmente determinante perché:

  • è basata su un indubitabile “risparmio di memoria” attraverso l’eliminazione di tutte le ridondanze che caratterizzano la nostra tavola pitagorica, alleggerendola proprio nelle tabelline considerate spesso più ostiche;
  • permette di sfruttare la naturale propensione dei bambini all’utilizzo della proprietà commutativa;
  • permette di  introdurre e sfruttare proficuamente il concetto di elemento neutro e di elemento assorbente.

Per introdurre l’utilizzo di questa tabellina triangolare, ho dovuto inventare una piccola storia introduttiva ambientata nel mondo della moltiplicazione, in cui un mago tondo e nero di nome zero (originale eh? 😀 ) faceva scomparire tutti i numeri che incontrava mentre il mago uno, bianco e magro, aveva pietà di loro e se li incontrava li lasciava andare lasciandoli uguali a prima.

Al di là del fatto che poi ognuno si inventa la storia che vuole, ciò permette di eliminare tutti i qualchecosaperzero o peruno che fanno parte a pieno titolo dei cosiddetti fatti numerici (vedi diapo 10), cioè quei calcoli automatizzati a cui “non pensiamo più” (come appunto le tabelline), perché preferiamo – almeno nei primi anni della nostra scolarizzazione – occupare inutilmente spazio della nostra memoria per incasellare 0X0, 0X1…. e poi 1X0, 1X1 e così via, piuttosto che imparare un semplice nX0 e nX1 (senza “tirare in mezzo” le tabelline). E questo mi pare stupido.

Fatto ciò si passa alla tabellina del 2, che in realtà è quella con il maggior numero di operazioni da memorizzare perché ognuna parte dalla moltiplicazione del numero per se stesso in quanto, grazie alla proprietà commutativa, quando passiamo alla tabellina successiva, sappiamo già i risultati precedenti a nXn. Il che significa che della tabellina del 9, alla fine, dovrai imparare solo il 9X9…

A questo proposito, mi sembra importante sottolineare che

diversamente da quanto accade nel caso del conteggio, sembra che i bambini acquisiscano la proprietà commutativa addirittura prima di apprendere le procedure “min” [che, spesso scoperte senza che siano state insegnate da altri, portano a fare le addizioni ad una cifra cominciando dall’addendo più grande anche se non è scritto per primo]. [Biancardi et al., p.29]

Cosa ci suggerisce ciò? Che in questa maniera andiamo a “poggiare l’apprendimento” su di una operazione cognitiva che il/la bambino/a tende ad utilizzare spontaneamente (e che, comunque, è di facile acquisizione) senza anteporre una concettualizzazione che risulterebbe artificiosa.

Perché quindi ho parlato di tabelline in un post che si collocava nel solco di una riflessione relativa all’evoluzione/rivoluzione educativa?

In primo luogo perché mia figlia le tabelline le ha imparate ma la collega ha preteso che le esponesse comunque secondo lo schema della tavola pitagorica, ignorando probabilmente che lo scopo ultimo di questa memorizzazione è la velocizzazione del calcolo e non la recitazione aritmetica. E qui, probabilmente, il sistema rivela tutta la sua rigidità poco lungimirante che difficilmente fa credere nell’evoluzione quanto piuttosto sperare (ancor più difficilmente) in una rivoluzione.

In secondo luogo perché evidenzia la necessità (veramente non solo in ambito matematico ma dato che stiamo parlando di questo…) di un’analisi qualitativa dell’errore e/o della difficoltà (per chi è interessato alla discalculia consiglio la lettura di questo documento PDF), in quanto i problemi in questo campo possono riguardare

la strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione numerica (cioè intelligenza numerica basale: subitizing, meccanismi di quantificazione, comparazione seriazione, strategie di calcolo a mente) [o] le procedure esecutive (lettura, scrittura e messa in colonna dei numeri) e il calcolo (recupero dei fatti numerici e algoritmi del calcolo scritto) [Biancardi et al., p.15]

Da cui ne deriva la necessità che il docente abbia competenza e consapevolezza metodologica, che non può derivare esclusivamente dalla competenza disciplinare ma anche dalla conoscenza dello stadio evolutivo delle acquisizioni che spontaneamente l’essere umano mette in atto.

E ciò vale per la didattica “speciale” quanto per quella “normale”, dato che mi pare ci sia bisogno di avviare una nuova stagione di riflessione pedagogica finalizzata ad una revisione del nostro fare-scuola-quotidiano, possibilmente smettendola di occuparci di semplice ingegneria istituzionale finalizzata a fare cassa e nella speranza di avere ancora una scuola pubblica in cui farlo.

Dulcis in fundo, auspicare un confronto metodologico con altre realtà culturali (come proposto nel PDF segnalato da Andreas) potrebbe veramente aprire la mente a soluzioni nuove, non pappagallescamente importate ma adeguatamente rielaborate, scoprendo le risorse del melting pot culturale.

E’ ovvio che sperare in una evoluzione/rivoluzione in tal senso considerando le mani in cui siamo caduti, irrispettose di tutti e di tutto ciò che  non sia feroce chiacchiericcio reazionario, non è semplice. Come ha scritto il dott. Stella

fino a qualche anno fa gli scienziati si distinguevano per la prudenza con cui esprimevano giudizi, soprattutto in domini estranei alla loro pratica di studio e di ricerca. Erano stati educati e disciplinati dal duro e lungo lavoro di verifica e confutazione a dubitare delle semplificazioni e a rispettare le ricerche condotte da altri scienziati, senza per questo esimersi dal porre domande e sollevare dubbi, ma evitando di esprimere giudizi definitivi che li avrebbero esposti a brutte figure…

Ora questo tempo non è più. Ma non disperiamo in tempi migliori, per il bene dei nostri alunni e dei nostri figli.